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Il ricorso a ju chióvo per uccidere il maiale è scomparso ormai da qualche decennio, con l’introduzione di dispositivi meno cruenti. L’oggetto viene ancora utilizzato da qualche anziano contadino per fare le scope e ji scupitti di saggina. Molti facevano ju marzacchittu sull’impugnatura, in quanto era utile per battere i vimini che legavano le canne di mèlega (saggina).
Il Museo possiede vari esemplari donati da Artemio Tacchia (strumento appartenente al padre Luigi) e Antonio Tarquini (oggetto usato anche dal padre Giuseppe).

L’importanza alimentare del maiale è documentata dal fatto che costituiva il principale elemento carneo nella dieta della popolazione contadina della Valle. L’allevamento interessava l’ambito domestico e costituiva un ciclo lavorativo ed economico collaterale a quello della terra. La vendita dell’animale interessava il circuito di scambio, in modo particolare le fiere di bestiame, come quelle di Riofreddo, Gerano e Arcinazzo. L’ulteriore vendita di carni insaccate costituiva un utile introito nel periodo di primavera, in un momento di stati produttiva delle campagne.
I ricavi delle vendite serviva all’acquisto di vestiario, scarpe e attrezzi da lavoro.
A gennaio-febbraio, in alcuni paesi del comprensorio, fino a qualche anno fa, era ancora viva la tradizione dell’uccisione del maiale, che è anche un’occasione festiva, durante la quale si preparavano le carni e si consumavano collettivamente alcune parti dell’animale.
Alle prime luci dell’alba iniziavano le operazioni relative all’uccisione: si allestivano le fascine di legno per accendere fuochi su cui veniva collocato il maiale per bruciare le setole; sugli stessi fuochi veniva riscaldata l’acqua per pulire l’animale. Il maiale, oggi abbattuto con strumenti più moderni e immediati, tradizionalmente veniva accorato con ju chióvo.