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Nei periodi di siccità, i contadini della Valle attingevano l’acqua dai fossi e dal fiume Aniene con ju cócchio e la lanciavano in alto alla corona (ovvero in forma larga e circolare), facendola ricadere a pioggia sul terreno. L’operazione durava ore e richiedeva, oltre alla forza delle braccia, una buona abilità per evitare lo sgaraccià, cioè il ricadere di tutta l’acqua in un punto, col rischio di divellere le piantine. Ju cócchio veniva fabbricato, in genere, da uno stagnaro, ma i contadini più poveri lo facevano da sé, usando contenitori di latta vuoti di generi alimentari: si forava il barattolo nella parte superiore e vi si infilava un manico di legno di castagno. Era più piccolo, ma ugualmente funzionale. Il termine dialettale deriva dal latino cochlear, cucchiaio.
Il Museo ne conserva alcuni esemplari: uno di Luigi Tacchia (1980, lungh. 190 cm), un altro di Luciano Innocenzi (prima metà del XX sec., lungh. 208 cm).
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