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“La novella nun è bella, se nun ci si rappella”
(proverbio toscano)

“Non riesco a dimenticare neanche per un momento
con quale misteriosa materia ho a che fare…”
(Italo Calvino)

“Non pare,
ma c’è gente grande che ancora ce crede
alla befana!”
(Pietro Moretti)

PIETRO MORETTI
era un racconto di meraviglie
di Antonello Ricci

L’infanzia infinita.
Il corpo di un vecchio, gli occhi di un bimbo.
Parole popolari.
Le cose di un mondo povero: povere, appunto, ma meravigliosamente animate e metamorfiche… animali parlanti, oggetti vivi… la sostanza unitaria del tutto, uomini bestie piante cose, l’infinita possibilità di metamorfosi di ciò che esiste.
Immergersi nell’informe e misterioso.
Il senso di un sortilegio che esondava nella vita d’ogni giorno.
Pietro si sentiva (e si sente) quei personaggi, sentiva (e sente) che avrebbe avuto quel destino e che gli sarebbero successe quelle cose… «ci pareva di toccalle co’ mano».

La spinta verso il meraviglioso è dominante anche se confrontata con l’intento moralistico.
La morale della fiaba è sempre implicita… quasi mai vi s’insiste in forma sentenziosa o pedagogica. E forse la funzione morale che il raccontar fiabe ha nell’intendimento popolare, va cercata non nella direzione dei contenuti ma nell’istituzione stessa della fiaba, nel fatto di raccontarle e d’udirle.

Le fiabe sono vere…
Le fiabe non hanno tempo, le storie non avevano età (erano per tutti).
Il passatempo di quando la tv non c’era ancora.
Molti erano i narratori che a Latera raccontavano bene, andavano a veglia nelle case, d’inverno specialmente. Nonostante le case fossero piccole, si andavano a sentire le storie «come quando si va al cinema». I narratori usavano «certe espressioni, che uno resta ancora più convinto che è la verità».

Si raccontavano anche le storie di vita: l’America, la guerra mondiale, la fame e la fatica. Anche quelle erano storie. E si raccontavano in campagna, «a lavoro col zappone e la vanga su le mano». Il padre (Luigi) narrava anche della Gerusalemme liberata, di Orlando e Rinaldo; così, vanga e zappone si trasformavano in Durlindana o Fusberta…
Ma Pietro da bambino pendeva dalle labbra dello zio Emilio, narratore professionista, della mamma Lucia e della nonna (Lucia pure quella).
– Nonna, raccontateci la storia!
– Ma io sono stanca devo andare a letto… quale volete?
– Quella della palomba! quella della palomba!
– Guardate che quella della palombella è più lunga e più bella…
– Allora raccontàtece quella della palombella!
– Guardate che quella della palomba è più bella e più lunga.
Sette otto dieci volte fino a che arrivava il sonno.

Al centro del costume di raccontar fiabe è la persona – eccezionale in ogni villaggio o borgo – della novellatrice o del novellatore, con un suo stile, un suo fascino. Ed è attraverso questa persona che si mutua il sempre rinnovato legame della fiaba atemporale col mondo dei suoi ascoltatori, con la Storia.
La novella vale per quel che su di essa tesse e ritesse ogni volta chi la racconta, per quel tanto di nuovo che ci s’aggiunge passando di bocca in bocca. Il narratore crede di far solo delle variazioni su un tema; ma in realtà finisce per parlarci di quel che gli sta a cuore.

Pietro diventa grande, è nel lettone matrimoniale con la moglie e i nipotini, magari con il cuscino incastrato tra letto e comodino per l’ultimo arrivato…
Pietro diventa grande.
I nipoti sono cresciuti e i loro amichetti si annoiano a stare a sentire.
Le storie sono ormai troppo lunghe…

* i brani in corsivo costituiscono citazioni dagli scritti di Italo Calvino

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Intervista a Pietro Moretti